Se il celebre regista australiano Peter Weir avesse ambientato il suo film sulla scuola nel Liceo Scientifico di Chieti invece che nella Welton Academy il risultato sarebbe stato piuttosto diverso e la nomination per l'oscar sarebbe andata alla sora Lella Fabrizi.
L'edificio di via Nicoletto Vernia ha la giusta solennità di una seriosa e rigida istituzione scolastica d'altri tempi: c'è la lapide con la proclamazione della vittoria da parte del generale Firmato Diaz e la pietra bagnata dal sangue dei fanti. C'era anche un preside arcigno e minaccioso, il prof. Luigi Capozucco detto Giggino, che imponeva una severissima disciplina o perlomeno ci provava. Mentre ci provava però simulava il gesto pilatesco del lavarsi le mani.
Il film non avrebbe potuto intitolarsi "L'attimo fuggente" ma piuttosto "l'attimo da fuggire" e avrebbe avuto come protagonista non l'aitante prof. Keating e il suo intrigante "Carpe Diem", bensì la temibile professoressa Di Cicco con i canti di una traduzione dell'Eneide mandati a memoria.
La sora Lella, con un adeguato trucco e un finto strabismo, era l'attrice con la giusta somiglianza fisica per interpretarne il ruolo. Lo spirito ovviamente non poteva essere quello scanzonato e romanesco di molte sue interpretazioni. Per essere perfetta avrebbe dovuto assumere il tono burbero da direttrice del collegio di Gian Burrasca o quello di una spietata Kapò.
La professoressa Di Cicco era soprannominata D'Artagnan per via del suo abbigliamento che includeva scarponcini con grosso tacco e vistosa fibbia quadrangolare, cappello ampio e floscio con piume e mantellina sulle spalle. Il fioretto lo dimenticava sempre a casa. Era un'insegnante vicina alla pensione con l'unico scopo di mantenere un totale e assoluto controllo sugli scolari. A questo fine utilizzava particolari regole e particolari strumenti.
Lo strumento principale erano gli occhiali scuri, un modello con lenti piegate ad angolo in modo da creare una chiusura anche laterale. Erano occhiali da motociclista per difendersi dal vento. Lei li usava in classe per celare la direzione del suo sguardo. Gli alunni si devono sentirsi osservati sempre, tutti! Evidentemente non sapeva che anche senza occhiali gli alunni non riuscivano ugualmente a seguire il suo sguardo perché l'anziana insegnante aveva un occhio offeso e non allineato con l'altro. Quando faceva una domanda erano sempre in due a rispondere scatenando le sue ire:
- Ehi, ma che non lo vedi che sto parlando con te?
- dice a te?
- no, dice a te!
- EHI, non parlare con lui che non c'entra niente! Rispondi alla domanda!
- chi io? - replicavano in coro le due vittime.
Arrivava a scuola sempre in ore successive alla prima. Procedeva lentamente lungo la salita di via Vernia, a piccoli passi, precisi, calcando il suolo con i piedi divaricati. Saliva con i libri sottobraccio e la piuma del cappello visibile da lontano. Vederla arrivare metteva già ansia e quella scena dell'arrivo della professoressa D'Artagnan era lentissima. Una tortura che durava quasi tutta l'ora precedente la lezione. Quando poi i suoi passetti risuonavano nel corridoio gli scolari trattenevano il fiato per la paura: puro triller!
Erano due i suoni che segnavano lo stato d'animo dei piccoli liceali del Masci: i passi della DiCicco simili ad un metronomo regolato per la massima suspance, e il cigolio del carrellino che trasportava la lavagna luminosa usata dal prof. Campana. Anche questo era un suono atroce, adatto ad un film di fantasmi, però lo si poteva considerare quasi amichevole perché l'arrivo della lavagna luminosa significava che a matematica il professore spiega, quindi non interroga. Sollievo.
L'altro strumento di terrore della DiCicco era la lista delle vittime, l'elenco degli alunni da interrogare. Era una lista di numeri e non di nomi. Veniva letta col tono perentorio di una sentenza inappellabile. Ogni alunno doveva conoscere a memoria il proprio numero e doveva presentarsi immediatamente accanto alla cattedra-patibolo. L'unico problema era l'impossibilità di conoscere esattamente il numero perché nei registri c'era stato qualche nome inserito e depennato che aveva fatto slittare la numerazione. Ogni alunno conosceva quindi il proprio numero che cambiava in ogni materia e la professoressa non diceva qual era la materia: una vera cabala. Alla chiamata dei numeri 8, 13, 18 e 24 si presentavano Del Gatto, Di Carlo, Marcheggiani e Salvatore. Il primo era salvo perché faceva parte dei numeri invarianti, gli altri venivano scrutati da capo a piedi, lentamente, come se fossero arrivati a scuola in abbigliamento da carnevale:
- Tu chi sei?
- Salvatore.
- Cosa vuoi? chi t'ha chiamato?
- Sono il numero 24... avete chiamato il 24. Ho capito 24.
- E' Rocchetti il 24. Tu sei Rocchetti? dov'è Rocchetti?
- Veramente Rocchetti è 24 a Storia, io sono 24 a italiano.
- E questa è storia! non lo sai che questa è l'ora di storia? Italiano oggi lo facciamo dopo. Che vergogna! è pazzesco, dopo tanto tempo non avete ancora imparato il vostro numero! incredibile! Niente, non sanno mai niente!
Così Salvatore, nonostante la sfuriata subita, sgattaiolava verso il banco con gran sollievo e Rocchetti raccoglieva l'occorrente per il patibolo vrastemando sottovoce.
Sì, c'era anche la regola che al patibolo non si poteva mai arrivare a mani vuote. Ma questo lo racconteremo nel prossimo capitolo.
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L'edificio di via Nicoletto Vernia ha la giusta solennità di una seriosa e rigida istituzione scolastica d'altri tempi: c'è la lapide con la proclamazione della vittoria da parte del generale Firmato Diaz e la pietra bagnata dal sangue dei fanti. C'era anche un preside arcigno e minaccioso, il prof. Luigi Capozucco detto Giggino, che imponeva una severissima disciplina o perlomeno ci provava. Mentre ci provava però simulava il gesto pilatesco del lavarsi le mani.
Il film non avrebbe potuto intitolarsi "L'attimo fuggente" ma piuttosto "l'attimo da fuggire" e avrebbe avuto come protagonista non l'aitante prof. Keating e il suo intrigante "Carpe Diem", bensì la temibile professoressa Di Cicco con i canti di una traduzione dell'Eneide mandati a memoria.
La sora Lella, con un adeguato trucco e un finto strabismo, era l'attrice con la giusta somiglianza fisica per interpretarne il ruolo. Lo spirito ovviamente non poteva essere quello scanzonato e romanesco di molte sue interpretazioni. Per essere perfetta avrebbe dovuto assumere il tono burbero da direttrice del collegio di Gian Burrasca o quello di una spietata Kapò.
La professoressa Di Cicco era soprannominata D'Artagnan per via del suo abbigliamento che includeva scarponcini con grosso tacco e vistosa fibbia quadrangolare, cappello ampio e floscio con piume e mantellina sulle spalle. Il fioretto lo dimenticava sempre a casa. Era un'insegnante vicina alla pensione con l'unico scopo di mantenere un totale e assoluto controllo sugli scolari. A questo fine utilizzava particolari regole e particolari strumenti.
Lo strumento principale erano gli occhiali scuri, un modello con lenti piegate ad angolo in modo da creare una chiusura anche laterale. Erano occhiali da motociclista per difendersi dal vento. Lei li usava in classe per celare la direzione del suo sguardo. Gli alunni si devono sentirsi osservati sempre, tutti! Evidentemente non sapeva che anche senza occhiali gli alunni non riuscivano ugualmente a seguire il suo sguardo perché l'anziana insegnante aveva un occhio offeso e non allineato con l'altro. Quando faceva una domanda erano sempre in due a rispondere scatenando le sue ire:
- Ehi, ma che non lo vedi che sto parlando con te?
- dice a te?
- no, dice a te!
- EHI, non parlare con lui che non c'entra niente! Rispondi alla domanda!
- chi io? - replicavano in coro le due vittime.
Arrivava a scuola sempre in ore successive alla prima. Procedeva lentamente lungo la salita di via Vernia, a piccoli passi, precisi, calcando il suolo con i piedi divaricati. Saliva con i libri sottobraccio e la piuma del cappello visibile da lontano. Vederla arrivare metteva già ansia e quella scena dell'arrivo della professoressa D'Artagnan era lentissima. Una tortura che durava quasi tutta l'ora precedente la lezione. Quando poi i suoi passetti risuonavano nel corridoio gli scolari trattenevano il fiato per la paura: puro triller!
Erano due i suoni che segnavano lo stato d'animo dei piccoli liceali del Masci: i passi della DiCicco simili ad un metronomo regolato per la massima suspance, e il cigolio del carrellino che trasportava la lavagna luminosa usata dal prof. Campana. Anche questo era un suono atroce, adatto ad un film di fantasmi, però lo si poteva considerare quasi amichevole perché l'arrivo della lavagna luminosa significava che a matematica il professore spiega, quindi non interroga. Sollievo.
L'altro strumento di terrore della DiCicco era la lista delle vittime, l'elenco degli alunni da interrogare. Era una lista di numeri e non di nomi. Veniva letta col tono perentorio di una sentenza inappellabile. Ogni alunno doveva conoscere a memoria il proprio numero e doveva presentarsi immediatamente accanto alla cattedra-patibolo. L'unico problema era l'impossibilità di conoscere esattamente il numero perché nei registri c'era stato qualche nome inserito e depennato che aveva fatto slittare la numerazione. Ogni alunno conosceva quindi il proprio numero che cambiava in ogni materia e la professoressa non diceva qual era la materia: una vera cabala. Alla chiamata dei numeri 8, 13, 18 e 24 si presentavano Del Gatto, Di Carlo, Marcheggiani e Salvatore. Il primo era salvo perché faceva parte dei numeri invarianti, gli altri venivano scrutati da capo a piedi, lentamente, come se fossero arrivati a scuola in abbigliamento da carnevale:
- Tu chi sei?
- Salvatore.
- Cosa vuoi? chi t'ha chiamato?
- Sono il numero 24... avete chiamato il 24. Ho capito 24.
- E' Rocchetti il 24. Tu sei Rocchetti? dov'è Rocchetti?
- Veramente Rocchetti è 24 a Storia, io sono 24 a italiano.
- E questa è storia! non lo sai che questa è l'ora di storia? Italiano oggi lo facciamo dopo. Che vergogna! è pazzesco, dopo tanto tempo non avete ancora imparato il vostro numero! incredibile! Niente, non sanno mai niente!
Così Salvatore, nonostante la sfuriata subita, sgattaiolava verso il banco con gran sollievo e Rocchetti raccoglieva l'occorrente per il patibolo vrastemando sottovoce.
Sì, c'era anche la regola che al patibolo non si poteva mai arrivare a mani vuote. Ma questo lo racconteremo nel prossimo capitolo.
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